Giornata contro la violenza sulle donne: educare alla consapevolezza

Ogni anno, il 25 novembre, scuole, istituzioni e piazze si riempiono di scarpe rosse, commemorazioni e manifestazioni legate alla Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Questa celebrazione, istituita dalle Nazioni Unite nel 1999, nasce per ricordare che la violenza di genere non è un fatto privato, ma una questione pubblica e culturale, che investe in pieno la società.

Al di là delle ricorrenze e delle campagne, questa giornata interroga profondamente il mondo dell’educazione. La scuola è il primo luogo in cui si impara a riconoscere l’altro, e a riconoscersi. È qui che le parole prendono forma autonoma, che si costruisce una consapevolezza slegata dalla famiglia, che si definiscono i confini tra rispetto e sopraffazione. Celebrare il 25 novembre, allora, non significa aggiungere un tema al calendario civico, ma trasformare una memoria collettiva in un percorso educativo permanente.

Parlare di violenza contro le donne a scuola non è solo un dovere civile, ma una forma di alfabetizzazione emotiva e culturale: insegnare a nominare la disparità, a riconoscerla nei gesti e nel linguaggio, a decostruirla nei modelli quotidiani. Se la violenza è una costruzione culturale, infatti, anche la parità può esserlo. E in questa costruzione la scuola ha un ruolo decisivo: rendere visibile ciò che spesso resta invisibile, e dare voce a chi la storia ha troppo a lungo lasciato in silenzio.

I simboli della Giornata contro la violenza sulle donne:
le scarpe rosse

Tra i segni che negli anni hanno assunto un valore universale, le scarpe rosse sono diventate il simbolo più potente contro la violenza di genere. L’idea nasce nel 2009 dall’artista messicana Elina Chauvet, che a Ciudad Juárez – una città segnata da centinaia di femminicidi impuniti – dispose, per la prima volta, decine di paia di scarpe rosse lungo una piazza. Ogni paio rappresentava una donna uccisa, una vita spezzata, un’assenza resa visibile attraverso il colore della denuncia e della memoria. Da allora l’opera Zapatos Rojos è diventata un linguaggio collettivo, replicato in tutto il mondo: un modo per dire che la violenza non è solo un dato di cronaca, ma una ferita sociale che ci riguarda tutti.

Le scarpe, oggetto quotidiano, simbolo di movimento, diventano così un’assenza che parla: raccontano chi non può più camminare, chi non è mai arrivata a destinazione, chi ha perso la libertà di scegliere la propria strada. Portare questo simbolo nelle scuole significa trasformarlo in un gesto educativo e partecipato. Studentesse e studenti possono reinterpretarlo con linguaggi diversi – fotografia, scrittura, teatro, installazioni visive – per riflettere sul legame tra corpo, libertà e identità.

Un’installazione collettiva di scarpe rosse nel cortile di una scuola può diventare il punto di partenza concreto per discutere di stereotipi, diritti e relazioni sane: un modo per educare alla presenza, partendo dall’assenza. Ogni simbolo è, in fondo, una forma di apprendimento rispetto a un fenomeno sociale. Le scarpe rosse, così come un altro simbolo di questa giornata, le panchine rosse, ci insegnano che la memoria non è mai solo un atto commemorativo, ma un esercizio di consapevolezza civile.

Il 25 novembre per ricordare le sorelle Mirabal

La data del 25 novembre non è casuale, ma è stata scelta per ricordare il sacrificio delle sorelle Mirabal, tre donne dominicane – Patria, Minerva e María Teresa – assassinate nel 1960 dal regime del dittatore Rafael Trujillo. Il loro “reato” è stato quello di opporsi alla dittatura, fondando un movimento clandestino per la libertà del proprio Paese. Le chiamavano le “Mariposas”, farfalle, per la loro capacità di resistere e di volare oltre la paura. Da allora, il loro nome è diventato il simbolo di una resistenza femminile che non usa la forza, ma la parola, la solidarietà e il coraggio di combattere per i propri ideali e il proprio Paese.

Nel 1981, durante il primo Incontro Internazionale Femminista latinoamericano a Bogotá, il 25 novembre fu scelto come giorno di mobilitazione contro la violenza di genere. Nel 1999, le Nazioni Unite lo hanno riconosciuto ufficialmente come Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Ricordare questa storia a scuola significa restituire senso e profondità a una data che rischia di ridursi a rito. Le sorelle Mirabal non rappresentano solo il coraggio femminile, ma l’idea stessa di cittadinanza attiva: la possibilità di opporsi all’ingiustizia, di scegliere la libertà, di fare della dignità un atto politico.

Portare la loro vicenda in classe — attraverso letture, film, testimonianze o laboratori di scrittura — aiuta studentesse e studenti a comprendere che la violenza di genere non nasce solo dall’individuo, ma da un sistema di potere che può e deve essere disimparato. Educare alla memoria, oggi, significa insegnare a riconoscere i meccanismi che trasformano la differenza in disuguaglianza, e il silenzio in complicità.

I molti volti della violenza: una scuola per la consapevolezza

La violenza contro le donne non ha un’unica forma né un solo linguaggio. Spesso non inizia con un gesto fisico, ma con una parola che sminuisce, una scelta imposta, una libertà economica negata. Riconoscerne le sfumature è il primo passo per prevenirla. Accanto alla violenza fisica e sessuale — quella più visibile e denunciata — esistono forme più sottili ma altrettanto devastanti:
• la violenza psicologica, che controlla e isola attraverso la colpa o la paura;
• la violenza digitale, che si manifesta in molestie, ricatti e diffusione non consensuale di immagini;
• la violenza economica, forse la più invisibile, che priva le donne del diritto all’autonomia e alla gestione delle proprie risorse.

Quest’ultima è una forma di controllo che passa attraverso il denaro: stipendi gestiti da altri, impossibilità di accedere a conti personali, dipendenza economica mascherata da protezione. Ecco perché l’educazione all’autonomia finanziaria è oggi parte integrante dell’educazione alla parità. Parlare di educazione finanziaria nelle scuole significa fornire alle ragazze e ai ragazzi strumenti concreti per capire il valore del denaro, del lavoro, del risparmio e dell’autonomia economica: l’indipendenza non è solo un obiettivo individuale, ma un diritto sociale. La violenza economica, in fondo, è una forma di analfabetismo relazionale: nasce quando il potere sostituisce la fiducia. Per questo la scuola può agire in anticipo, offrendo modelli di autonomia, linguaggi di equità e percorsi di consapevolezza economica, soprattutto alle studentesse.

Educare al digitale per contrastare gli abusi

Allo stesso modo, educare al corretto uso del digitale significa andare oltre le regole di “buona condotta” online: vuol dire lavorare su consenso, privacy, responsabilità e potere nelle relazioni mediate dalla tecnologia. In classe, questo si traduce nel far comprendere che ogni contenuto ha un contesto e un’autorialità (immagini, chat, note vocali), che il consenso alla condivisione è sempre specifico e revocabile e che la circolazione non consensuale di foto o informazioni è una forma di violenza. Bisogna chiarire la permanenza dei dati (screenshot, inoltri, archivi) e i rischi di pratiche come sexting non consapevole, image-based abuse, doxxing, deepfake.

L’educazione digitale efficace combina competenze tecniche e competenze etiche: saper usare impostazioni di sicurezza e privacy; conoscere gli strumenti esistenti per la nostra protezione; distinguere tra conflitto e molestia/cyberstalking; riconoscere stereotipi e hate speech di genere. È utile includere momenti di media & information literacy: l’obiettivo formativo non è “demonizzare” la rete, ma abitare il digitale in modo sicuro e giusto, riconoscendo che anche online valgono le stesse regole di rispetto, consenso e dignità che difendiamo nella vita offline. Raccontare le diverse forme di violenza, allora, non serve a spaventare, ma a rendere visibili i meccanismi del controllo e a restituire voce e competenza a chi ne è privo. Solo riconoscendo la complessità del fenomeno possiamo costruire una cultura della prevenzione, fondata sull’ascolto, sull’educazione e sulla libertà.

Il linguaggio come primo luogo di educazione

Le parole non descrivono soltanto il mondo: lo costruiscono. Attraverso il linguaggio impariamo a dare valore alle persone, a stabilire relazioni, a definire ciò che è normale e ciò che non lo è, perciò educare alla parità significa, prima di tutto, educare al linguaggio. La violenza di genere nasce spesso da un linguaggio che normalizza la disparità: nelle battute, nei titoli dei giornali, nei commenti online. Parole che sminuiscono, infantilizzano, cancellano: espressioni come “raptus di gelosia”, “lei lo provocava”, “non si sapeva difendere”, “le permetto” rivelano una struttura culturale che sposta la responsabilità, che giustifica invece di denunciare, che riduce invece di comprendere.

Insegnare un linguaggio equo non significa solo sostituire termini o aggiungere desinenze femminili, ma riconoscere la forza simbolica delle parole e la loro capacità di includere o escludere. Ogni volta che una studentessa non si riconosce nel linguaggio dei testi scolastici, o che una forma femminile viene percepita come “forzata”, la scuola è chiamata a interrogarsi: che immagine del mondo stiamo trasmettendo? L’uso di un linguaggio rispettoso e non sessista non è una questione di forma, ma di responsabilità educativa. Significa insegnare a pensare in modo inclusivo, a scegliere parole che rappresentino la complessità, che non semplifichino le differenze ma le accolgano. È un lavoro che può attraversare tutte le discipline: analizzare come i manuali di storia raccontano le figure femminili, come la preponderanza del termine “scrittore” abbia cancellato le autrici dai testi antologici, come la lingua evolve per rispecchiare una società più equa.

Educare al rispetto, ogni giorno

Educare contro la violenza significa andare oltre il parlarne durante la Giornata del 25 novembre, ma abbracciare un ecosistema di insegnamento che porta a riconoscere la fragilità come parte dell’essere umano, a coltivare l’empatia, a dare valore al consenso, al dialogo, alla reciprocità. È un processo lento, quotidiano, che attraversa le relazioni, le parole, i gesti, così che in questo cammino la scuola non sia solo un luogo di apprendimento, ma una comunità che educa al rispetto.

L’insegnante può scegliere di dare spazio alle voci delle donne, di interrogare i linguaggi, di proporre modelli di relazione equa e solidale. Può insegnare a riconoscere il potere e a trasformarlo in responsabilità, a leggere la diversità non come minaccia, ma come risorsa comune. Contro la violenza non bastano le leggi o le ricorrenze: serve una cultura che impari a riconoscere l’altro come parte di sé. Come scriveva bell hooks, l’amore è “volontà di estendere il proprio sé al fine di favorire la crescita spirituale propria o di un’altra persona” e forse educare, oggi, non è altro che questo: insegnare la libertà attraverso la cura.

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