Cyberbullismo: non sono cose da ragazzi


Una riflessione sulla survey che ha coinvolto migliaia di studenti

Se segui eDition, e ovviamente noi ti consigliamo di farlo, avrai già avuto modo di leggere l’articolo che abbiamo dedicato ai risultati della survey nell’universo dei docenti (se non lo hai ancora letto, puoi farlo cliccando questo link): ora vogliamo dedicare attenzione al versante studentesco, certamente il frangente più intrigante di questa survey, per una serie di motivi.

Per iniziare diciamo che ragazze e ragazzi della scuola secondaria che hanno compilato i questionari sono stati invitati a farlo dai loro docenti: non si tratta di un’informazione essenziale per comprendere i risultati, tuttavia ci sembra corretto chiarire il contesto di somministrazione delle domande. Il periodo di coinvolgimento dei giovani in questa attività è stato pari a quello riservato ai docenti: si parla pertanto di un intero anno solare, e anche questo ha contribuito a raggiungere un numero di individui notevole, parecchio superiore alle tremila unità.

Come molti sanno già, la ricerca è stata effettuata attraverso un questionario elettronico anonimo che prevedeva, dopo 3 domande comuni, un percorso differenziato per gli studenti che segnalavano di aver subito violenze su internet (un buon 11% sul totale), ai quali venivano posti interrogativi differenti rispetto a chi non manifestava di aver avuto alcuna esperienza di questo tipo.

La popolazione degli studenti risulta particolarmente rappresentativa: oltre ad una quantità di partecipanti considerevole (cosa che è avvenuta anche con i docenti), in questo caso possiamo contare su una ripartizione tra maschi e femmine assolutamente equilibrata, praticamente un “fifty-fifty” (48.7% femmine e 49.5% maschi, per la precisione). Anche dal punto di vista dell’appartenenza al contesto urbano o extraurbano, abbiamo avuto la fortuna di attivare un campione ben bilanciato: il 42.3% dei giovani ha dichiarato di vivere in un centro cittadino, il 34% in aree periferiche, il 27.4% in campagna.

Ai ragazzi sono state poste molte domande, per indagare i tanti fenomeni che formano la costellazione del sopruso e della molestia attraverso canali telematici e informatici, come cyberbullismo, flaming, cyberstalking, hate speech e body shaming. Bisogna innanzitutto sottolineare come tutti gli studenti si siano dimostrati particolarmente informati sul cyberbullismo, sapendone delimitare con le proprie risposte preliminari una circonferenza definitoria senza imprecisioni, includendo tutte le caratteristiche chiave che questo fenomeno comporta.

Come accennato in precedenza, la cifra distintiva di questo strumento di ricerca, è la domanda 4, con la quale si chiedeva agli aderenti di dichiarare (nell’assoluto anonimato), se avessero mai subito violenze su internet: la risposta, affermativa o meno, dava accesso ad un set di quesiti parzialmente differenziati, che ora andiamo a valutare nello specifico.

Gli studenti del “io no”

Gli studenti che hanno dichiarato di non aver mai subito violenza su internet (88.8%) sono uniformemente distribuiti rispetto al sesso (48.9% femmine e 50.4% maschi); la stessa uniformità si legge nella loro provenienza socio-geografica: il 42% di questo cluster, infatti, vive in un centro urbano, mentre la rimanente porzione del campione risiede in zone di campagna o comunque più periferiche. La sostanziale linearità con le caratteristiche espresse dall’universalità degli studenti interpellati, fa pensare ad una risposta poco riflessiva a questa domanda dalla quasi totalità degli studenti, figlia altresì di prevedibili sentimenti di maggiore inibizione o vergogna nel dare una risposta affermativa.

Nonostante queste note doverose, dobbiamo sottolineare come l’ampiezza di questo gruppo di risposte abbia garantito risultati particolarmente rappresentativi ed attendibili nelle successive domande.

Il gruppo in questione non dimostra indifferenza nei confronti del cyberbullismo: l’81,7% di questi studenti ritiene che la frequenza di atti di violenza online sia fra alta e altissima; inoltre, quasi un buon 30% di loro considera questo tipo di bullismo digitale anche più pericoloso del bullismo fisico e, infine, il 54.5% sarebbe certo di voler denunciare l’accaduto qualora ne fosse vittima.

La famiglia afferma il proprio ruolo centrale nel rappresentare una ancora di sicurezza davanti a questo tipo di aggressioni, sia come interlocutore esclusivo, sia come intermediario per la denuncia vera e propria alle autorità: le due opzioni di risposta alla domanda “avendo scelto di denunciare l’accaduto, a chi ti rivolgeresti prima?” che fanno riferimento alla famiglia, raggruppano oltre il 60% delle preferenze.

Questo segmento di studenti estranei ad esperienze in prima persona di cyberbullismo dimostra una spiccata sfiducia nell’efficacia di contrasto delle forze dell’ordine (solo il 19.4% le considera il primo punto di approdo per una eventuale denuncia): la vergogna (38.7%), la convinzione dell’inefficacia (27.4%), la paura di un aggravarsi delle ritorsioni (23.2%), e l’intimidazione di un ambiente istituzionale (10.7%), motivano questo orientamento di pensiero. La porzione minoritaria, più “decisa”, quella che si rivolgerebbe a Polizia e Carabinieri, ha una chiara visione di come fermare il fenomeno, all’interno della quale la legislazione dedicata (25.8%) e le iniziative di sensibilizzazione a tutti i livelli (52.9%) svolgerebbero un ruolo chiave.

Il fattore rischio non è percepito solamente in relazione a smartphone e app: è internet in generale che destabilizza. Forse anche a causa della manifesta percezione di mancanza di reti legislative adeguate, certamente per colpa di quello schermo, che tanto è efficace nel celare identità ed intenzioni; il mondo della rete attrae e spaventa, in un gioco paradossale, che assomiglia agli ancestrali meccanismi psicologici di “eros e thanatos”.

Gli studenti coraggiosi

Facciamo finta che una survey restituisca sempre dati reali, affidabili e sinceri: se così fosse avremmo un 11% degli studenti che ha incontrato di persona la tristezza di questa esperienza, e che ora vuole dirci com’è stata… In questo caso, ci troviamo davanti ad una popolazione così suddivisa per genere: femmine 53.87%, studenti maschi 41.60%, non specificato 4.53%. La provenienza socio-geografica invece, si attesta su un 42.93% residente in poli urbani ed i rimanenti in zone periferiche o di campagna (confermando una sostanziale indifferenza del fenomeno a questa variabile). Nel titolo parlavamo di coraggio, perché sostanzialmente è questo che hanno dimostrato nel rispondere affermativamente alla domanda “Hai mai subito violenza su internet?”. Proprio nel rispetto di questo coraggio, vogliamo trascrivere l’intera distribuzione delle risposte ottenute alla domanda successiva, che chiedeva a questi studenti di scegliere le tre opzioni che meglio potevano descrivere l’esperienza vissuta:

Qualcuno mi ha preso il cellulare ed ha fatto finta di essere me, diffondendo foto e video privati (6.7%)

Hanno iniziato a commentare alcune mie immagini sui social in modo volgare ed offensivo (23.6%)

Qualcuno mi ha scritto e-mail prendendomi in giro (12.6%)

Qualcuno mi ha chiesto soldi o favori che non avevo intenzione di dare, minacciandomi attraverso e-mail, messenger o dm (5.9%)

Una o più persone hanno diretto verso di me attenzioni sessuali insistenti, attraverso messaggi privati, e-mail e telefonate (10.3%)

Sono stata esclusa/o da un gruppo sui social con intenti discriminatori – sulla base di genere, appartenenza etnica, disabilità (19.5%)

Sono stata/o perseguitata/o online da una persona (12.2%)

Sono stata/o perseguitata/o online da un gruppo di persone (9.1%)

Questo lo scenario: anche se non additati direttamente, i “social” emergono come un territorio molto favorevole per la nascita e la propagazione di questo tipo di attacchi (dove la natura discriminatoria appare particolarmente accentuata). Ma si tratta poi di attacchi o di qualcosa di più, specie in virtù della loro dimensione temporale?

Ecco, da questo punto di vista, il campione che ha risposto in questa sede si dimostra in qualche modo distante dallo stereotipo della persecuzione di medio-lungo termine, con il quale si tende a descrivere solitamente il cyberbullismo. Circa il 75% degli studenti che dice di aver fatto esperienza diretta di violenze online, delinea un comportamento quasi “mordi e fuggi”, fatto di episodi singoli (34.4%), oppure di un numero limitato di aggressioni (40.5%).

Ma veniamo al momento della reazione: come si pone il cluster di studenti “vittima” di fronte ad una potenziale denuncia? Sebbene la maggioranza si nasconda ancora dietro il silenzio, la percentuale di giovani che decidono di denunciare è sorprendentemente consistente: il 34.4%. Questo dato, se confrontato con l’orientamento complessivo degli studenti che dicono di non aver mai subito questo tipo di soprusi, sembra far emergere una frattura fra un comportamento teorico, soltanto ragionato, e fondamentalmente cauto, ed una presa di coscienza determinata dallo scontro con la realtà, che porta a cercare concretamente aiuto.

La denuncia per queste ragazze e ragazzi è efficace nell’81.4% dei casi, ed è la famiglia (e in questa situazione riscontriamo aderenza con il gruppo di individui del paragrafo precedente) che diventa protagonista in qualità di referente primario e ideale (61.2%): gli insegnanti fanno capolino nella “classifica” dei confidenti qualificati al secondo posto, tuttavia il 17.1% con il quale vengono preferiti, denota ancora quanto intimi siano gli argomenti che stiamo trattando; il fatto che spesso la scuola sia il punto di arrivo “reale” di queste aggressioni virtuali, non contribuisce a candidare i docenti come confidenti tout-court, a prova di quanto diffuse e profonde risultino queste esperienze per i giovani.

Questo segmento di partecipanti alla survey, ci offre anche interessanti occasioni di riflessione sull’identikit dell’aggressore: ci si divide fra perfetti sconosciuti (31%), e persone che appartengono ad un contesto ristretto, tanto che le si consideravano amiche (20.2%); ci sono poi gruppi all’interno della scuola, tanto sconosciuti (14%), quanto appartenenti alla stessa classe (9.3%), ma anche ex e compagni di classe.

Forse proprio a causa di una condivisione familiare di queste problematiche, i numeri di chi riceve aiuto anche senza averlo chiesto esplicitamente sono molto elevati (53.5%), arrivando addirittura a superare quelli dell’aiuto sollecitato dalla stessa “vittima” (46.5%). Di fronte alla percezione di una violenza alla sfera più privata del “sé”, ancora particolarmente fragile in questa fase dello sviluppo, come testimoniano le sensazioni riportate di rabbia (19.4%), tristezza (14.8%), stress (12.4%), paura (10.6%) e odio verso sé stessi (10.6%), si può leggere una parallela voglia di reagire, con un 92.3% dei soggetti che intraprende azioni di contrasto in completa autonomia.

Sul fronte dei social, canali e app che diventano secondo il campione di “esperti” più frequentemente territorio di angherie, Instagram e Whatsapp si collocano in testa alla classifica con uno score per entrambi di circa il 36% delle risposte, staccate di gran lunga le seconde posizioni, attorno al 3-4%, ed occupate da Facebook e TikTok. Questa fotografia rappresenta senza troppe sorprese quello che molti si sarebbero aspettati: c’è alla base una predisposizione del media ad arrivare al privato più intimo, coinvolgendo le immagini, e potendo favorire la leva del “ricatto”.

Chiudiamo questa nostra ricognizione analitica sulle risultanze della survey, con un dato che fa riferimento all’ultima domanda che è stata posta ai giovani che hanno ammesso di essere state vittime, ovvero quella che chiedeva loro se potessero ricordare di essersi posti dall’altro lato della tastiera, essendo stati a loro volta bulli digitali. Solo il 6.3% degli studenti colpiti dichiara di esser stato anche aggressore, mentre il 49.6% è sicuro di non aver mai praticato attacchi di cyberbullismo: è tuttavia interessante, ed anche misterioso e sicuramente degno di ulteriori investigazioni, quel consistente segmento di studenti che non rispondono, o che ammettono di “non sapere”. Un’ultima pennellata che aggiunge la tonalità dell’incertezza ad un quadro che sembrava più definito e netto, qualcosa su cui continuare a riflettere.